Abitare le nostre emozioni è complesso: non siamo abituati a farlo.
Entriamo nelle loro stanze in modo distratto, le percorriamo di fretta, senza soffermarci. Il nostro sguardo è parziale, superficiale. Non è un atto deliberato il nostro, ma ignoranza: le emozioni parlano un linguaggio che non ci è stato insegnato e spesso stentiamo a comprenderlo.
Interpretiamo le nostre emozioni nello stesso modo in cui cerchiamo di comprendere uno straniero che ci parla in una lingua poco conosciuta: costruiamo il senso del discorso dai pochi termini noti, ma spesso la comprensione è parziale o lacunosa.
Quanti equivoci ne conseguono, uno dei più grandi riguarda la confusione che spesso facciamo tra due emozioni tanto potenti quanto diverse, rabbia e paura.
Sembra impossibile poter confondere rabbia e paura, eppure capita.
Facciamo un esperimento. Rispondiamo di getto a questa domanda: chi attacca lo fa perché è...? Nel 90% delle volte la risposta è automatica: è arrabbiato.
Tra le poche regole del linguaggio delle emozioni che ci sono state insegnate c’è che la rabbia porta a scagliarsi contro l’altro, ad urlare, a picchiare. Il sillogismo è automatico: chi attacca lo fa per rabbia.
Peccato che questo sillogismo non sia perfetto perché attaccare non è solo una reazione della rabbia, ma anche una delle possibili reazioni della paura, di cui il corredo genetico ci ha dotato insieme alla fuga e alla paralisi.
Pensiamoci: attacchiamo quando vogliamo andare contro, quando vogliamo abbattere. Ma lo facciamo anche per proteggerci da qualcosa o da qualcuno che può farci del male.
Rabbia nel primo caso, paura nel secondo. Da arrabbiati attacchiamo con la forza della convinzione e della tensione verso la meta. Da impauriti lo facciamo a testa bassa, con la forza della disperazione, della lotta per la sopravvivenza.
La nostra disabitudine al linguaggio delle emozioni ci porta ad attuare il famoso sillogismo e a ragionare in modo unidirezionale.
Andiamo in escandescenze chiacchierando con il partner o con un amico? Ovviamente siamo arrabbiati. Non ci sono alternative: ha detto o fatto qualcosa di sbagliato contro cui reagire.
Al lavoro ci irritiamo davanti al feedback di un collega o a un nuovo task che ci viene assegnato dal capo? Siamo arrabbiati, senza appello: il feedback è gratuito, il nuovo compito è inutile, eccessivo, ingiusto. Qualcosa di sbagliato contro cui ci opponiamo.
Ecco il grande equivoco nel quale cadiamo: a causa del sillogismo distorto, ci sintonizziamo immediatamente sulla rabbia anche quando è paura. E agiamo di conseguenza. Come? Chiudiamo ogni possibilità di dialogo, ci sentiamo nel giusto e di conseguenza ci imponiamo o ci opponiamo, tesi ad attenere la vittoria, rifiutando il pareggio.
Interpretiamo la rabbia, un’emozione che scatta quando avvertiamo di trovarci davanti ad un ostacolo da abbattere: l’altro..o i suoi pensieri.
Cosa succede se invece in noi parla la paura? Un cambio totale di prospettiva, perché in quel caso l’emozione scatta a causa di una minaccia, non di un ostacolo.
Una differenza di non poco conto visto che i due termini non sono sinonimi, anzi: l’ostacolo ha a che fare con la volontà, con il nostro muoverci verso e quindi con la nostra dimensione “esterna”, la minaccia fa scattare il nostro senso di protezione e quindi ha a che fare con la nostra dimensione “interna”.
Nella paura, quindi, attacchiamo per tutelarci.
Da cosa? Nel mondo evoluto in cui viviamo le minacce da cui difenderci hanno sempre meno a che fare con la sopravvivenza fisica, ma non per questo sono meno intense. Spesso, ad essere minacciate, sono le nostre certezze, le nostre convinzioni, le abitudini su cui basiamo le nostre scelte, quelle che ci preservano, facendoci sentire al sicuro, nel giusto.
Se torniamo agli esempi che abbiamo fatto, spezzare l’automatismo “attacco-rabbia” ed inserire una parentesi per comprendere quale emozione ci parla apre grandi possibilità perché ci dà la chance di capire se ciò contro cui stiamo reagendo, con il partner, con l’amico, con il collega, con il capo non è ingiusto di per sé, ma piuttosto pericoloso poiché mette in discussione le nostre certezze, il nostro punto di vista, costringendoci ad uscire dalla nostra zona di confort.
Si tratta di spezzare il sillogismo. E l’unico modo per farlo è porci la domanda delle domande: cosa sto provando?
La risposta a questa domanda non è nella nostra testa, nella quale parlano i nostri pensieri e le nostre associazioni, ma nel corpo: nelle sensazioni fisiche, nella loro intensità e temperatura, nella parte di noi in cui sono localizzate.
La paura è tutta concentrata al centro del petto, è un senso di freddo innaturale; la rabbia è calore, un calore che esplode nella testa e nelle mani.
Imparare a sentire le emozioni nel corpo è esercizio essenziale; è il vocabolario da sfogliare quando ci parla il “famoso” straniero e vogliamo comprenderlo appieno.
Se consultando il vocabolario del nostro corpo ci rendiamo conto che reazione va tradotto con paura, allora diventiamo consapevoli di provare un’emozione totalmente opposta rispetto alla rabbia.
Un’emozione che – per essere gestita – richiede di porci nei confronti dell’altro e dei suoi pensieri in modo diverso, invertendo il senso di marcia del nostro movimento interiore: non più andare contro ma andare verso, non più scontro, ma confronto.
Non è puro buonismo o filosofia, ma pratica emotiva, perché uno dei modi più efficaci di gestire la paura è avvicinarci progressivamente a ciò che ci spaventa, esponendoci un poco alla volta alla fonte per ridimensionarla.
Pensiamo ad esempio alla paura di parlare in pubblico. Per gestirla è inutile rifiutare la prova che proprio per via del rifiuto ci sembrerà ancora più spaventosa. Al contrario il modo più utile è fare prove continue, esponendosi ed esercitandosi attraverso piccoli interventi via via più lunghi. Avvicinandosi, appunto.
Avvicinarsi all’altro per gestire la paura non significa necessariamente rinunciare alle nostre convinzioni, al nostro modo di vedere le cose, ma significa aprirsi al dubbio, al confronto con un punto di vista diverso, alla sperimentazione: significa accorgersi che ci scaldiamo con il partner per la paura di mettere in discussione un nostro comportamento, che ci opponiamo al nuovo task, contestandolo, perchè abbiamo il timore di non essere capaci di realizzarlo, per la paura di fallire.
Significa, alla luce di questa scoperta, muoversi in modo diverso, senza rifiuto ma con apertura, alla ricerca di strategie per operare in noi un cambiamento o per ricavare le informazioni e gli strumenti per svolgere il compito in modo adeguato.
La mancanza di intelligenza emotiva, l’incapacità di riconoscere rabbia e paura non agisce solo nella vita del singolo, ma anche a livello sociale. E lì i danni di questa confusione sono ancora più gravi.
Un esempio è attuale e purtroppo sotto gli occhi di tutti. Parlo della gestione della diversità, in ogni ambito. Ci si oppone a revisioni normative che consentirebbero tutela generalizzata, si bullizza nelle scuole, si attacca chi non aderisce ai canoni tradizionali, alle classificazioni e stereotipie di genere non per rabbia, ma per paura.
In quegli attacchi non c’è reazione contro un ostacolo, ma contro una minaccia. Se chi agisce in questo modo riconoscesse la sua paura finirebbe per invertire il senso di marcia con grande beneficio sociale; sarebbe la voglia stessa di gestire la paura che originerebbe l’esposizione progressiva, il confronto, la vicinanza con il diverso, per conoscerlo, per ridimensionare.
Insomma, possiamo davvero dirlo: nel privato e nel lavoro, individualmente o a livello sociale riconoscere di avere paura richiede il coraggio di mettere in discussione le proprie convinzioni, il coraggio di esporsi al dubbio, di confrontarsi senza pregiudizi.
Ma è difficile, perché si sa... ci vuole coraggio ad avere paura
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